La verità sul caso Joël Dicker
Il testo paradigmatico di Dicker, quello che sicuramente è il suo manifesto letterario ad oggi, è “La verità del caso Harry Quebert”, ergo si proverà a tracciarne i caratteri principali per far emergere la figura dell’autore dalle sue stesse pagine. Innanzitutto, dunque, è necessario inquadrare questo tipo di romanzo, ovvero un giallo di proporzioni notevoli, nell’ambiente editoriale: a quale bisogno risponde il libro di Dicker? La risposta è semplice: a tutti quei lettori amatoriali che desiderano l’immersiva compagnia di un testo fortemente serializzato. Il processo di serializzazione dei media, ovvero la diluizione di una narrazione per favorirne una fruizione più simile ad una serie televisiva che ad un vero e proprio romanzo, è un qualcosa con cui ormai conviviamo quotidianamente: non esistono più singole linee narrative, ma grandi universi narrativi interconnessi ed immortali, incapaci di muoversi tra un inizio ed una fine, ma solamente tra un principio ed un orizzonte di perenne divenire dove il termine è posticipabile in virtù della speranza di non doversene separare. “La verità sul caso Harry Quebert” fa esattamente questo, creando un microcosmo narrativo all’interno del quale tutti hanno il proprio spazio e giocano un ruolo palese e cinematografico: nulla è lasciato all’intendersi, ma solamente alla pazienza. Il lettore è soddisfatto dopo la lettura, poiché tutte le sue necessità sono state accolte e curate dallo scrittore. Scritto in maniera scorrevole, veloce come una brezza primaverile, e leggera, come la piuma mossa quel respiro di rinascita, il testo fila via come capelli tra le dita, profumato della cosciente dolcezza di sapere d’essere riuscito a prendere per il naso il lettore ed averglielo fatto amare. Ci troviamo davanti, per fare un paragone, ad una versione molto meno elegante e raffinata di “The prestige” di Christopher Nolan, ma non per questo inferiore per efficacia, anzi! È nella metanarrativa che il testo compie il balzo del leone, ottenendo quel piccolo tocco autoriale in più rispetto alla grande concorrenza che compone il mondo editoriale di Dicker: tra una miriade di giallisti qualunque, quel piccolo guizzo è parte della sua firma. Una firma fatta, dunque, da metanarrativa di base ed uno stile narrativo liscio, ma cinematografico ed alla portata di tutti. Eppure, se fosse una semplice penna capace, non avrebbe ottenuto lo stesso successo se non per delle storie affascinanti, no? Qui la discussione si apre ancora di più, quasi volesse invogliarci a cercare tutto ciò che Dicker, come i veri artisti, ha rubato per comporre le proprie opere.
“La verità sul caso Harry Quebert” non è un mistero che sia ispirato, per quanto concerne il rapporto tra Nola ed Harry, a “Lolita”, dunque a tutto quel filone di letteratura pederastica che comprende anche “Morte a Venezia” di Thomas Mann o “Ragazzi di vita” di Pier Paolo Pasolini, e che nella propria componente più thriller si rifaccia a quel mondo giallistico che si distacca dai modelli di Sir Arthur Conan Doyle ed Agatha Christie, preferendo quelli di stampo esplicativo come Jo Nesbø. Dopotutto, Joel Dicker è un autore contemporaneo e sarebbe più che straniante se producesse scritti seguendo dei modelli ormai desueti, ma non toglie che si sia perso il focus rispetto all’origine della storia. Volendo banalizzare, s’è passati dall’interesse storico, ovvero “Cos’è avvenuto?”, all’interesse giornalistico, “Cos’avviene?” se non “Cos’avverrà?”. Questo depaupera alcuni dei temi fondanti del testo, come il rapporto pederastico tra Harry e Nola o la crisi creativa di Marcus, restituendo una maggiore fruibilità del testo: limitare la portata del proprio messaggio affinché possa arrivare a tutti, a prescindere da tutto e tutti. Non è un caso che non abbia ricevuto il trattamento riservato a “Lolita”, fatto di scherni e rifiuti di lettura “perché lui era veramente pedofilo!”. Questa castrazione è cartina tornasole di una precisa scelta editoriale, di una cura meticolosa rispetto all’aspetto formale, ma che perde l’occasione di poter far pesare la propria mano con decisione su temi profondi. Abbiamo ricevuto una bellissima riflessione sulla temporalità dell’amore, ma chi non avrebbe preferito vedere sviscerate quelle “Origini del male”? Vedere dipanarsi le sottili corde d’amore che suonano la musica della nostra vita, ogni giorno a ritmi e toni diversi, ma senza mai smettere veramente, nemmeno quando l’usura le rende o impenetrabili al tocco o sfibrate dallo sforzo, fino all’ultima nota, il canto del cigno dell’esistenza di ciascuno. Sarebbe stato meraviglioso vedere messa su carta una riflessione del genere, uno squarcio per poter vedere la parte più vera di noi, quella parte estremamente limitata che riesce a suonare il mondo solo attraverso i propri finiti tasti: quanto sarebbe stato belle sentire suonare uno scrittore di una piccola cittadina troppo grande, di due uomini troppo ricchi per essere capaci di parlarne, di un profumo di salsedine troppo dolce, di una donna troppo bella? La grandiosità di una storia del genere non sarebbe stata tanto nella sua realizzazione, ma nel suo tentativo: potrebbe mai esistere romanzo più umano di uno che cerca di cantare di quello che sfugge alla parola e rimane solo come calore nelle notti in cui il mondo sibila gelido oltre le finestre?
Questo, dunque, è Joël Dicker: uno scrittore che ha scelto di parlare a tutti sacrificando la possibilità di umanizzare i propri testi quanto avrebbe potuto. Uno scrittore che ha scelto, legittimamente, di vendere piuttosto che parlare. Uno scrittore che ha scelto d’essere ciò che il mondo avrebbe voluto ricevere, ma non ciò che il mondo non si sarebbe aspettato di ricevere. Uno scrittore che ha donato molto comunque, perché se ora chi scrive questo articolo è qui a gettare parole nel disperato tentativo di condividere ciò che pensa, lo si deve a quell’uomo che un giorno decise di prendere una penna, della carta e raccontare delle storie ad un pubblico, persone che a loro volta avrebbero raccontato le loro storie di quelle storie e così via, come una gigantesca valanga in cui nessuno è niente e tutto, lettore e scrittore, spettatore e partecipante. Questa, in fondo, è “La verità sul caso Joël Dicker”: una possibilità.
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