"After", ovvero la morte dell'emozione

Prima di qualsiasi tipo di riflessione è necessario stabilire un punto fermo, un giudizio analitico a priori: “After” è sterco impresso su pellicola. Questa non sarà una disamina del testo scritto da Anna Todd, non ancora da me terminato, bensì una serie di opinioni intorno alla pellicola diretta da Jenny Gage, regista anche di “Lenny” ed “All this panic”, per cercare di scoprire quanto sia profonda la tana del Bianconiglio.
Il principio della storia di Teresa Young, “Tessa” per gli amici e coloro che hanno buon gusto, ed Hardin Scott consiste nel suo trasferimento al college. Tessa è la classica ragazza acqua e sapone, studiosa, pratica, realista e casta al punto d’essere la perfetta candidata per il ruolo di madre superiore in un convento. Tutto in lei, per lei e da lei è controllato maniacalmente affinché sia conforme alla propria idea di ciò che dovrebbe essere il mondo… peccato che questo tratto, il quale dovrebbe essere determinante della personalità di Tessa, verrà dimenticato appena finita la sequenza iniziale nella casa natale. Conosciamo anche la madre, piacevole ed utile come la sabbia nel costume, e Noah, ovvero lo schiavo personale delle due Young. Tralasciando il personaggio della madre, tragicamente inutile e rilevante quanto un peto in bottiglia, vorrei focalizzarmi maggiormente sullo schiavo, nonché fidanzato di Tessa. Egli è il classico ragazzo perfetto, il “good boy” da contrapporre al “bad boy” incarnato da Hardin, con il carisma di un fermaporta crisoelefantino a forma di Pippo. Il termine “schiavo” non viene utilizzato casualmente, attenzione: egli è realmente e deliberatamente sottomesso al volere della famiglia Young dalla tenera età, almeno secondo quello che Tessa rivela verso la fine della pellicola, di cinque anni senza obiettare. Per una persona minimamente interessata di psicologia, questa è una chiara manifestazione della “sindrome di Stoccolma”, pertanto inviterei a lanciare l’hashtag #FreeNoahPorter. Il problema del personaggio, però, non risiede tanto nella sua caratterizzazione da zerbino, possibile e legittima (N.d.C. Quasimodo in “Notre Dame de Paris” ebbe un ruolo simile nei confronti di Frollo ed Esmeralda), tanto quanto nella resa dell’attore che ha messo vitalità nel proprio personaggio quanto un necrofilo dentro un obitorio. Noi spettatori non percepiamo mai l’amore, o quantomeno l’affetto, di Noah verso Tessa, bensì vediamo solamente una maschera fissa che ogni tanto fa la paternale poiché il bere ed il festeggiare, palesi manifestazioni del demonio, sono contrarie al Mos Maiorum. Questo elemento sarà trasversale a tutti gli attori nel cast: nessuno prova emozioni, tutto è palesemente finto. L’essere artificiale non è un qualcosa di negativo, qualsiasi nostra produzione è tale, ma lo spirito che infondiamo è determinante affinché quella cosa, quella res, non sia un semplice oggetto senz’anima. Qual è la differenza tra “About time” di Curtis ed “After” di Gage? Entrambe sono storie d’amore senza grandi pretese filosofiche, bensì votate alla dimostrazione della potenza di uno dei sentimenti che più ci muove, eppure sono profondamente diverse. Dobbiamo accettare il fatto che persino l’opera più mediocre ha in sé più spirito del nostro giudizio che la definisce tale, ma il problema sopraggiunge quando assistiamo alla creazione di qualcosa di puramente vuoto. “After” patisce l’essere un guscio vuoto, lo scheletro deforme di qualche ente che non ha mai raggiunto la propria dimora. “About time”, nel suo essere imperfetto, riesce a colpire, sorprendere, stupire, far ridere ma soprattutto emozionare: nessuno sarà mai inutile fin a quando potrà emozionare un altro uomo. Il figlio del soggetto della Todd manca di questo, manca di emotività e dunque di spirito. Davanti a noi abbiamo la cosa peggiore che il mondo possa generare: una creatura incapace di emozionarsi ed emozionare. Noah è palese manifesto di ciò, un guscio vuoto che agisce meccanicamente senza realmente sentire un sussulto nella propria intimità. Questo si denota anche dal saluto che rivolge all’amata prima di lasciarla: abbraccio e poi bacino fugace, giusto affinché non si dica che non abbia il coraggio di sfiorare una ragazza. Torna alla mente, in questi casi, la scena di quella cloaca che fu “I pirati dei caraibi: la vendetta di Salazar”: “Le ho visto le caviglie!” “Avremmo visto anche di più se ti fossi stato zitto, mannaggia a te!”. Ovviamente i cliché sui college americani prorompono in tutta la loro forza: compagni di stanza fattoni, feste ogni giorno tutto il giorno, lo studio è per plebei e Starbucks a pieno regime per distribuire caffeina ad un esercito di zombie desiderosi di vedere il proprio nome su un bicchiere di plastica… il mio lo sbagliarono. La fine sopraggiunge quando un giorno, tornando dalla bellissima doccia in comune, Tessa incontra Hardin Scott nella propria camera. Andiamo a definire, prima di analizzare la figura di Hardin, il ruolo del “bad boy”. Cos’è questa fantomatica figura che imperversa da eoni la letteratura per ragazzi? Ebbene, questa creatura ha delle caratteristiche trasversali:

  • L’addominale scolpito. In base alle versioni, si narra che chi tocchi suddette pietre dell’infinito possa arrivare ad avere visioni mistiche, ad esempio la comparsa della Madonna o un fievole barlume d’umanità nel mio cuore.
  • Gli epiteti. “Il piè veloce” non è più di moda come un tempo, nonostante ciò permane l’utilizzo di questi richiami prima della discesa in guerra, ovvero una guerra con la cintura di castità della protagonista vestale. Esempi di questi sono: “puttaniere”, “bello e dannato”, “stronzo”, “o-o-o-occhi di ghiaccio” ed altri affini.
  • Egli è ribelle. Ne “L’uomo in rivolta”, Albert Camus sottolinea come ciò che definisce la nostra esistenza è la ribellione: mi ribello ergo sum. Il bad boy ha assunto questo punto a mantra e l’ha portato a nuovi livelli inimmaginabili per i comuni mortali. Non è possibile pensare al suo livello di ribellione perché l’avrebbe già superato: egli è l’eterno ribelle che si spinge oltre ogni colonna d’Ercole. 
  • Egli è arrapato come un rinoceronte nella stagione degli amori e non conosce l’amore. Seguendo il solco di Schopenhauer, il bad boy ha solamente bisogno di svuotarsi dei propri fluidi quelle settantacinque volte circa al giorno, motivo per il quale il suo pene tende ad essere incastrato in qualsiasi cosa presenti orifizi. Non a caso egli è il “bello e dannato”: come non esserlo con questa scure che pende sopra la propria testa?
  • Solamente Lei può salvare il bad boy dalla sua eterna condanna al perpetuo alza bandiera. Lei è una donna angelicata, dotata di poteri divini conferiti direttamente dall’autrice/sceneggiatrice, ed è necessario questo percorso di redenzione dall’abisso della perdizione. “L’amore non è bello se non è litigherello” recita la saggezza popolare, infatti non sarà mai presente una storia in cui il bad boy e Lei siano amici fin dall’inizio: insieme dovranno affrontare un lungo viaggio, irto di pericoli e drammi, prima della pace perpetua. “Una lezione priva di dolore non ha valore. Perché, senza sacrificio, l'uomo non può ottenere nulla” recitava Alphonse Elric e questo atto di bene non può essere da meno: lingue danzanti s’incontrano, salive si mescolano, fluidi scorrono, le baccanti cantano e finalmente il rito è avvenuto. Ora lui è libero dalla maledizione tanto quanto lei del proprio imene.
  • La scelta per il bad boy non può che ricadere su poche categorie attentamente selezionate. Così come la carne di Kobe, solo i manzi più pregiati possono fregiarsi del titolo di “carne da fan fiction o peggio” e tra questi troviamo: quelli che furono gli One Direction (N.d.C. Sempre sia lode al nemico caduto onorevolmente sul campo di battaglia) con una predilezione in particolare per Harry Styles, caratterizzato tipicamente da riccioli ribelli, fossette ed occhi verdi; i 5 Seconds Of Summer, ovvero la band di ripiego caso gli One Direction fossero già stati utilizzati; Cameron Dallas e stendiamo un velo pietoso; Justin Bieber ed il suo lentamente camminare più verso la categoria “daddy” che “teen”; quelli che stanno scalando o hanno scalato ormai da tempo la montagna e si sono insediati come Shawn Mendes, Dylan O’Brien o nostrane perle come Benji e Fede, orgoglio italiano che si distingue come il gorgonzola dal cheddar, ovvero attraverso il tanfo mortifero.



Arriviamo quindi a parlare di Hardin Scott, protagonista maschile di questa melma putrescente, e del suo essere. Egli è, in questo film, psicologicamente interessante quanto un incidente autostradale: è ributtante, vergognoso, spaventoso, raccapricciante ma comunque tremendamente intrigante. Non guardiamo quel povero motociclista morto per interesse verso di lui, bensì desideriamo continuare a vedere l’osso fuoriuscire dalla sua gamba non potendo opporci a questo naturale istinto: la curiosità intorno al teatro grottesco della vita. In Hardin vediamo un attore privo di desiderio, così come tutti i membri del cast ed in particolare la protagonista femminile, nonostante abbia un buon potenziale (N.d.C. Hero Fiennes-Tiffin è nipote di Ralph Fiennes, ovvero Lord Voldemort o Amon Goeth, e Joseph Fiennes, William Shakespeare o Fred Waterford), il quale viene praticamente costretto a dimostrare tutto ciò che non sa fare. Egli dovrebbe essere, implicitamente, una figura carismatica ed intrigante, un antieroe che si dispiega nelle pieghe del tempo arrivando poi ad essere un eroe positivo, eppure non riesce minimamente a reggere una scena. Le sue battute sono poche e poco significative, si notino le citazioni ad mentula di “Cime tempestose” di Emily Brontë o “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, ottenendo il risultato opposto al desiderato: l’elemento di mistero ed attrazione non è che un soprammobile privo di rilievo. Nemmeno nelle scene che sarebbero dovute essere votate all’atto più vicino al compimento dello Spirito Assoluto, Hardin rassomiglia fortemente ad uno straniero alle azioni che si stanno compiendo. Questo, probabilmente, anche a causa del mancato controllo dei tempi nella pellicola. Sono presenti momenti morti interminabili, veramente estenuanti, ed altri che sarebbero potuti durare maggiormente, al contrario, sono stati mutilati. Ovviamente non vado a consigliare di rendere la pellicola un porno con del film intorno (Cfr. “La vita di Adele”, Abdellatif Kechiche), bensì decidere cosa fare della propria opera e cosa toccare negli spettatori di riferimento. Un approccio cerchiobottista in cui si cerca d’essere family friendly e contemporaneamente provocanti è fallimentare, non è un caso che questo film sia emblematico della classica situazione interna al suo pubblico: caste e casti virgulti che però non riescono a fare a meno di desiderare. Ciò che risulta tragico, almeno secondo colui che scrive queste poche righe, è che una cosa naturale come il desiderio sessuale venga reso qualcosa da sussurrare, da ritenere una devianza dalla pace sensoriale ed una ribellione. Il desiderio è legittimo poiché naturale e vanno diffidati coloro che sostengono limiti verso cosa si possa amare: la vita non è determinabile, bensì unicamente conducibile. Hardin dovrebbe essere la devianza, il frutto proibito che viene morso e permette la conoscenza, ma in realtà non è che un comune essere bipede basato sul carbonio in mezzo ad altri esseri bipedi basati sul carbonio che vivono su un pianeta che ruota intorno ad una stella di medie dimensioni nella periferia di una galassia periferica tra altri miliardi di galassie nell’universo. Ovviamente i cliché si sprecano sulla sua etica che porta, negli ultimi cinque minuti di pellicola, al colpo di scena utile quanto un cucchiaio bucato, poiché inutile visto il finale e l’effetto che ha avuto sui personaggi.
Si potrebbe terminare questo insieme di opinioni sul film dicendo che, in maniera sintetica e concisa, è mancata l’emotività, dunque lo spirito. Tutto è vuoto e nulla risuona d’emozione. Persino le scene più romantiche, quelle in cui il cuore dovrebbe commuoversi, sono piatte e non riescono a risaltare dentro quel grande mare grigio che è “After”. Così come il peggior film comico è quello che non fa ridere, il peggior film romantico è quello che non fa credere, seppur per poco, che nel mondo intorno a noi possa trovarsi quella sensazione che ci muove, in maniera conscia o meno, in ogni singolo momento della Storia. Questo è stata la pellicola per me: una cloaca priva di pathos, votata meramente al sembrare senza essere. L’unica cosa da sperare è che questa saga non veda mai un “After”...

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