Il mostro - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la follia
Come la peste, silenziosa e mortifera, la mostruosità s’insidia ovunque il nostro occhio giunga e nulla scampa alla pestilenza, quella piccola ombra che va incrinando la fiducia nel prossimo. Ogni persona, ogni evento, ogni cosa indicibilmente piccola o grande ci obbliga, seppur remotamente, a tremare e chiederci se dietro quello che ci appare non sia lì ad aspettarci un mostro. Non è possibile armarsi contro questo nemico, camaleontico ed inafferrabile, che sfugge costantemente ai nostri tentativi di definizione, andando a cannibalizzare la nostra serenità: il mondo è l’inferno, la nostra vita una speciale bolgia riservataci. Non rimane che tentare di chiudere gli occhi, “dormire, forse sognare” e cercare di lasciarsi dietro i terrori della paura per un luogo in cui finalmente essere sereni, ma ecco sorgere dalla terra del nostro essere i demoni da cui credevamo d’essere fuggiti. La realizzazione è spaventosa, ma eccola colpire con tutta la sua forza: l’orrore non è mai stato là fuori, bensì noi siamo il mostro tra gli uomini.
Hannibal Lecter, lo psichiatra cannibale di Thomas Harris, mosso dal desiderio d’evitare il peggiore dei mali possibili, ovvero lo spreco di una vita, non è propriamente un mostro, semmai tutto il contrario, eppure lo riconosciamo universalmente come un folle omicida che gode nel divorare le proprie vittime con un buon piatto di fave ed un buon Chianti, dunque che cos’è che ci terrorizza guardandolo negli occhi? La risposta è semplicemente terrificante: noi stessi. Noi rivediamo in Lecter la nostra stessa condanna: un lupo che si veste con le pelli di una pecora, un mostro che indossa un abito da essere umano. Vedersi, scoprirsi nudi davanti a se stessi, ci terrorizza poiché non abbiamo mai idea di quanto abbiamo tentato di nascondere alla nostra coscienza, di quanto abbiamo lavorato affinché potessimo apparire come avremmo voluto e di quanto sia profonda la tana del Bianconiglio. Non riusciamo a sostenere lo sguardo verso ciò che siamo, quel piccolo omuncolo così piccolo, fragile, indifeso, penoso e pietoso, dunque non c’è da sorprendersi del tentativo di occultamento di ciò che siamo: non possiamo permettere che altri ci vedano, non così. Ed ecco che il mostro inizia a diffondersi ovunque: “l’inferno sono gli altri”, come scrisse Jean-Paul Sartre in “A porte chiuse”, ed io li ho resi tali.
Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, studiò il meccanismo difensivo delle proiezioni dall’individuo e sull’individuo. Il prossimo, l’uomo che cammina intorno a noi, viene così investito dal nostro essere, da quel flusso di caratteristiche che non possiamo controllare: noi vediamo solamente ciò che siamo. È così che iniziamo a tingere il mondo, così come cantavano i Rolling Stones: “No colors anymore, I want them to turn black”. Proiettare fuori di noi quello che ci spaventa, le nostre Harey Kelvin che emergono dall’Oceano Vivente scaturito dalla penna di Stanisław Lem in “Solaris”, è l’unico modo che abbiamo per convivere con noi stessi e non venire sommersi da un mare d’affanni. Questa liberazione, un palliativo miracoloso che tenta d’affrontare la follia, comporta intrinsecamente, però, la stipulazione di un mutuo patto sociale: tanto quanto potrò proiettare il mio terrore fuori di me, tanto quanto il prossimo potrà fare lo stesso. Il costo del sottile filo su cui cammina la nostra sanità mentale è stato il popolare ognidove di ciò da cui saremmo voluti fuggire, poiché è estremamente più semplice pensarsi come eroi vaganti nelle pianure dei demoni che come uomini, semplici uomini spaventati da loro stessi e ciò che hanno creato: in un mondo in cui tutti vorrebbero essere Neo, l’Eletto di “Matrix”, realmente siamo tutti molto più Cypher di quanto non vorremmo.
Solamente i folli, i veri eroi che si lanciano a discapito di tutto e tutti, hanno il coraggio di intraprendere un percorso all’interno della propria mostruosità, nell’abisso che non può che sorridere di rimando allo sguardo che lo scruta. Ecco che questi incoscienti, forti della speranza di poter aiutare i loro compagni ancora incatenati al fondo della loro platonica caverna, cercando disperatamente di reggere la vista di quello che li attanaglia nel profondo, che li ha terrorizzati così tanto un tempo da farli scappare lontano, illudendosi che avrebbero potuto allontanarsi da se stessi: “Per quanto tu abbia attraversato un grande mare, per quanto, come dice il nostro Virgilio, si allontanino terre e città, ti seguiranno i tuoi difetti dovunque giungerai” scrisse Seneca nelle “Lettere morali a Lucilio”. Il loro fine, visto che sono dotati della capacità di vedere ciò che agli altri risulta invisibile, è tentare di trovare le parole per raccontare ai loro fratelli ciò che sono riusciti a scorgere, una vaga descrizione di cosa c’è in quelle profondità insondabili e che sfuggono alla capacità delle nostre parole. Così come sono indefinibili le cieche, mute, stolide abominazioni la cui anima è Nyarlathotep, l’antico incubo sgorgato dall’inchiostro di H.P. Lovecraft, così è quella tenebra che alcuni provano a raffigurare con i propri umani, forse persin troppo umani strumenti. Ma così come il fumo, quel mostro scivola tra le dita lasciando il nulla dietro di sé e una duplice sensazione nelle mani dei folli: la frustrazione di aver fallito e la speranza di volerci riprovare, di voler tentare ancora e mettere sotto scacco un nemico imbattibile.
Così come Batman, un folle che s’è spinto così in là d’abbracciare la propria pazzia, non potrà mai vincere contro Joker, non giungerà mai il giorno della vittoria definitiva. Un giorno, chissà, i mostri si risveglieranno ed inizieranno a fuoriuscire dai nostri letti, dalle nostre case, dalle nostre cantine, dalle nostre fabbriche e, così come i ratti de “La peste” di Albert Camus, andranno a morire in una città felice, costruita sopra i morti mostri che attendono sognando.
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