"Basta una brutta giornata"

Premessa alla trattazione: questa raccolta di pensieri su “Joker” non ha contratto gli spoiler.

Soverchiante. La prima parola con la quale potrebbe essere definito “Joker” è “soverchiante”. Joaquin Phoenix, la regia di Phillips, la fotografia di Sher, la colonna sonora di Guðnadóttir e tutta la vita di Gotham rendono la pellicola più potente di quanto ci si possa aspettare, soprattutto se vittime dello stereotipo per il quale “Cinecomic=Intrattenimento fine a se stesso”.
Iniziando proprio da questo punto, iniziamo andando a definire un punto fondamentale: “Joker” è un cinecomic ed un film d’autore. Nonostante, almeno normalmente, questo dualismo paia inconciliabile, è necessario andare oltre le etichette che la nostra mente tende ad utilizzare per comprendere ciò che abbiamo davanti. “La vita di Adele”, film su quanto possa essere perturbante l’amore e premiato a Cannes nel 2013, è un cinecomic tanto quanto, volendo citare altri titoli, “Oldboy”, “Kingsman”, “Men in black” o “Himizu”. Nonostante siano tutti film tratti da fumetti, così come da richiesta del termine “cinecomic”, nessuno urlò alla vittoria del “guilty pleasure” di molti geek/nerd quando vinse la storia d’amore di Adele ed Emma, ma la cosa passò abbastanza in sordina. La causa va ricercata nella più recente “secolarizzazione” del genere supereroistico, sublimato dal Marvel Cinematic Universe con “Avengers: Endgame”, nell’ultimo ventennio, dunque in quello a cui ci siamo abituati lentamente. Con il MCU e le sue pallide imitazioni di casa DC, oltre all’introduzione della serialità televisiva in un contesto cinematografico, abbiamo visto introdurre il concetto per cui un cinecomic dovesse essere una pellicola d’intrattenimento leggero, per tutta la famiglia e legata spiritualmente all’opera originale. Questo pensiero ha dato quindi forza all’abitudine di credere il cinecomic una categoria, anziché meramente un’effimera etichetta utile unicamente per ricordarsi dell’origine fumettistica di un’opera, creando, ora, il seguente problema: come può “Joker” essere un film d’autore, poiché di questo parliamo, ed anche un cinecomic? Non dovrebbe essere scanzonato? Non dovrebbe essere più “fumettoso”? Perché prende le distanze da ciò che l’ha preceduto? La risposta è palese nella pellicola, in ogni suo fotogramma: questo è il canto del cigno dell’etichetta.
Philips, infatti, non ha diretto un classico cinecomic sul Joker come praticamente tutti hanno fatto negli ultimi dieci anni, bensì ha realizzato il proprio Re Pagliaccio. Il regista della trilogia de “Una notte da leoni”, infatti, non ha nulla a che spartire con i fratelli Russo ed il loro stile asettico, standardizzato ed industriale, ma ha optato per un tocco personale che va riprendendo quell’artista immortale della settima arte che è Scorsese e lo sublima in ogni più piccolo dettaglio. L’immondizia e “Taxi Driver”, De Niro come Murray e “Re per una notte” sono solo i casi più palesi di riferimento all'italo-americano che c’ha donato perle come “Toro scatenato”, “Silence”, “Quei bravi ragazzi” e “L’ultima tentazione di Cristo”. Non siamo davanti all’ennesima pellicola nata per essere venduta a delle orde come l’esperienza più acquistata del mese, ma ad un dessert d’alta classe che richiede il proprio tempo per essere gustato. È approdata l’autorialità nel panorama dell’etichetta, prima delicatamente con Gunn ed ora palesemente con Philips, dunque è chiaro come la parabola inizi lentamente a volgere verso la stessa fine che fecero gli spaghetti-western. Questo è il canto del cigno, l’inizio della fine. “Joker” diventa, dunque, un film non aperto a tutti, dal fan sfegatato alla casalinga di Belluno, ma unicamente a coloro che hanno intenzione di danzare con Joaquin Phoenix ed il suo Arthur Fleck.
Volteggiare, distendersi, contrarsi, morire e poi respirare, infatti, è ciò che si fa seguendo il passo dettato da Phoenix, probabilmente ad una delle sue migliori interpretazioni di sempre. Non è possibile rimanere insofferenti, distaccati o imperturbabili davanti ad Arthur Fleck ed il suo essere un personaggio che va oltre ogni possibile di definizione del suo ruolo. L’empatia, quella virtù completamente assente in Fleck e che ricerca disperatamente nel prossimo, è ciò che riesce a prendere i nostri occhi e farli dilatare ad ogni singola inquadratura, complice anche il magnetismo del protagonista che con il proprio carisma riesce a far vibrare ogni momento di pura energia. Phoenix ha scritto, con il suo corpo, ogni peccato di cui è capace un uomo, ma non una tragedia: quella è più grande di ogni umano tentativo di tratteggiarla. La malattia mentale, il dolore, l’alienazione, lo smarrimento, la frustrazione, la disperazione sono tutti temi che vediamo dipinti sul viso di Phoenix con uno stile che non può non far innamorare di quel mostro, poiché tutto è reso al suo meglio con una maestria che ha del disumano. Joaquin Phoenix, ora che il sacro Daniel Day-Lewis, potrebbe diventare la nuova divinità della recitazione, quell’entità che ovunque ponga il proprio piede riesce a cambiare per sempre la storia della recitazione. Quella che ci fornisce l’attore è pura arte che non può che far scattare un’estasi: davanti a tanta bellezza, al sublime, non possiamo che fermarci ed ammirare tutto ciò con occhi cariche di lacrime, onorati della possibilità di vivere nello stesso periodo in cui dei geni creavano tutto questo. L’ascesa di Arthur Fleck è allo stesso tempo la sua caduta all’inferno, lo stesso che definì Sartre in “A porte chiuse” quando scrisse: “L'enfer, c'est les autres”, “L’inferno sono gli altri”.
Poiché questa è la critica sociale di Philips, non una meramente rivolta alle alte sfere. I gruppi identitari che vanno distruggendo tutto ciò che trovano sul loro percorso, incluse le persone e le personalità che vengono fagocitate, sono l’obiettivo delle sferzate della sceneggiatura, oltre che usi e costumi propriamente statunitensi, come ad esempio l’utilizzo di armi da fuoco. A chiunque basterebbe una brutta giornata per diventare Arthur Fleck e perdere se stessi, ammesso d’aver mai saputo d’essere qualcuno. Per questo verrà criticato sicuramente da taluni, timorosi che alcune loro certezze vengano scoperte davanti a tutti, poiché non è facile convivere con la realtà in cui navighiamo quotidianamente, ovvero quel mondo che ogni momento ci ricorda quanto le nostre idee su di sé siano fallaci e vuote. Scappiamo dentro Instagram, il nostro “Murray Franklin Show”, per cercare tranquillità, pace, amore e tutto ciò che normalmente non riusciamo a stringere tra le mani, poiché un’idealizzazione è sempre più rassicurante e dolce dell’aspra e dura e forte realtà, così feroce nel ricordarci quanto s’è distanti da quei desideri verso i quali tendiamo. 
Desideri che, però, non sempre si dimostrano semplici utopie che ci attraggono come oggetti d’amore. Infatti vorrei chiudere questo insieme di pensieri, questo zibaldone in versione più che ridotta, spendendo qualche parola sulla magia che ha esercitato su di me questa pellicola. Infatti questi sono i momenti in cui ricordo il perché, per me, il cinema sia una droga dalla quale non potrò mai disintossicarmi, ma che continuerà sempre a soverchiarmi ed emozionarmi come quando, per la prima volta, vidi “Il pianeta del tesoro” da bambino. Phoenix e Philips m’hanno fatto venir voglia di danzare con loro per le strade di Gotham, di recitare quelle stesse scene, di respirare la silenziosa tensione che permea ogni ripresa e tutto quell’insieme di emozioni che solo chi ha avuto la fortuna di poter sfiorare l’arte può comprendere. L'uomo che ha gustato una volta i frutti dell’arte, che ha imparato a conoscere i suoi sistemi, e che allora, immancabilmente, li ha ammirati come i beni più alti della cultura, non può più rinunciare all’arte e al vivere per essa. Non c’è sensazione più inebriante della volontà di mettersi all’opera per tentare di produrre qualcosa di definibile “arte”, ovvero quella nostra espressione che tenta di farci andare a dormire soddisfatti, poiché nostro unico modo di poterci esprimere propriamente come individui. Se al mondo più persone si lasciassero vivere dal sublime che li circonda, forse tutti vivremmo e faremmo viver meglio. Dunque grazie “Joker” per essere un capolavoro, un piccolo barlume di estetica meraviglia che illumina occhi che hanno il vizio di oscurarsi alla bellezza che li circonda. L’importante, dopotutto, è sorridere, no?

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