La dignità dell'ignoranza

“Io so di non sapere” dichiarava Socrate dinanzi alla Boulé, poco prima d’essere costretto al martirio. La figura cristologica della storia del pensiero occidentale ammise davanti ai propri allievi, davanti alla gente comune, davanti ai propri aguzzini e davanti a chiunque avesse cuore d’ascoltare le ultime parole di un condannato a morte la propria abissale ignoranza non per falsa modestia, bensì anticipando di secoli il criticismo kantiano: è nel limite che possiamo scorgere la validità dell’agire.
Quando COVID-19, o “Corona virus”, ha iniziato a dilagare, nessuno, o pochi, ebbe mai la forza di superare i propri bias cognitivi e fare lo stesso “mea culpa” di Socrate: nessuno ebbe la forza di dirsi ignorante. Quel nome correva di bocca in bocca, da un polo all’altro da un dibattito politico imperante e soffocante dell’analisi critica, della sfumatura, della ricerca. Perché informarsi attraverso quegli straordinari strumenti che la Storia era arrivata a donare quando sarebbe bastato seguire le parole di una qualsiasi figura di riferimento? Così, ancora una volta, l’italiano medio diventa una hegeliana vacca nera nella notte della propaganda priva di scrupoli: come campo di battaglia la quotidianità, come soldati ciechi individui che hanno deciso di “Credere, obbedire e combattere” per la loro causa. Étienne de La Boétie, politico, scrittore e filosofo del XVI secolo, amico intimo di Michel de Montaigne, scrisse nel suo “Discorso sulla servitù volontaria”: “Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte, sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato. Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? Siate dunque decisi a non servire più e sarete liberi!”. Il Discorso ruota intorno, più che su un piano prettamente materialistico come poi inteso dall’esegesi di stampo anarco-marxista, su un’emancipazione della volontà dell’individuo, il quale dovrebbe tendere a ricercare la libertà più che le comodità del comune cortigiano. Eppure la lezione di de La Boétie non riuscì mai a colpire propriamente nel segno, lasciando migliaia di persone in preda a quello stato kantiano di minorità, al giogo di persone unicamente interessate a sfruttare ciò che il mondo stava loro offrendo. Ecco, quindi, palese la crepa alla base del sistema italiano: mentre la casa brucia, si litiga unicamente per chi debba scappare con in mano le chiavi di quello che sarà il rudere. Storicamente sarebbe possibile dire che questo sia causato da una prospettiva individualistica nata da un modello piccolo-borghese, ma la comprensione non giustificherebbe comunque l’agire di una massa che ha fatto del “mors tua, vita mea” un mantra, poiché l’inumanità, seppur per più che comprensibili ragioni, non può e non dev’essere mai accettata: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. La strada indicata dal Pellegrino, però, è stata smarrita dall’uomo, poiché vittima dei propri stessi bias cognitivi che lo portarono sfortunatamente in tempi lontani a ricercare unicamente ciò che già riteneva vero, a rifuggire dal confronto dialettico: senza mai spingersi oltre ciò che s’è, com’è possibile divenire più di sé? È dall’ignoranza, dalla percezione di mancanza che nasce la tentazione d’essere: non è possibile diventare se stessi senza guardare e lasciarsi guardare dentro dall’Abisso. Eppure il mondo era ed è pieno di uomini pronti a vendere facili soluzioni per grandi problemi, oppio per popolani incapaci di guardare per troppo tempo a quanto duro ed aspro e forte sia il mondo. 
Gli sciacalli della mente, vandali del libero pensiero, sono senza dubbio la disgrazia dell’umanità, poiché è risaputo quanto una sola idea sia capace di arrecare più danni di un esercito intero, ma non vanno dimenticati i nani furtivi che strisciano nel buio, quelli che si nascondono per tentare di celare la loro natura venale. Ai tempi del COVID-19 la cosa è diventata più che palese per tutti: mascherine vendute come preziosi beni di lusso, bottigliette di amuchina vendute come panacea ed un gioco rispetto ai beni di consumo che lasciava solamente intravedere la mano dei grandi burattinai dietro il teatrino della grottesca tragedia umana. L’Italia ha sempre ammirato la furbizia, la scaltrezza, l’acume di alcune menti, ma spesso estremizzando il concetto ed arrivando a frasi disumane capaci di giustificare la crudeltà perpetrata da coloro i quali hanno deciso di riempire il proprio portafoglio con le psicosi delle masse. Materialmente è un periodo di grandiosa ripresa per quella filosofia piccolo-borghese precedentemente citata, ma eticamente si palesa il putridume dietro il bell’abito della domenica. Queste sono le menzogne e le fragilità nascoste di uomini incapaci d’accettare le proprie nefandezze, possessori di vite devastate dal Fato, come ogni altro essere umano. Allora, anziché disprezzare e guardare il prossimo con antipatia, sarebbe necessario guardarsi con affetto. L’umanità è sul perenne orlo della disperazione, non esiste altro rimedio che guardarsi in faccia, ostentando o privandosi di quelle maschere pirandelliane, e farsi compagnia, pronti ad essere sodali gli uni degli altri: l’applicazione di quella cooperazione sognata da Leopardi ne “La ginestra”.
Ma sarebbe stato fin troppo bello poter vivere in un mondo in cui la “sumpatheia”, ovvero quella simpatia che è “condivisione del pathos”, fosse misura dell’agire umano, poiché avrebbe significato rendere concreta quell’utopia. Eduardo Galeano scrisse in “Parole in cammino”: “Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare”. Questa è sempre stata la “sumpatheia” per i folli eroi che decidettero di porla come bussola del proprio agire morale, a differenza di altri, sicuramente più concreti e realisti, che preferirono e preferiscono, nel migliore dei casi, un tornaconto o, nel peggiore, la semplice caoticità delle fiamme dell’irrazionalità. La xenofobia ha sempre viaggiato come la peste, il virus che ci porta a vedere nell’altro non un essere umano, ma uno straniero, un pericolo, un nemico da abbattere e da annientare, bacillo di pestilenza che non muore né scompare mai. Può restare per decine d’anni addormentato nelle case, nei pensieri. Si annida nei letti, nelle belle vite comode e ricche ed aspetta, ancora e ancora, pazientemente nelle camere, nelle cantine, nei sotterranei, nelle fabbriche e nelle scuole, aspettando che forse verrà un giorno in cui, sventura o insegnamento agli uomini, la peste sveglierà i suoi topi, per mandarli a morire in una città felice. L’Italia era ed è la città felice dei topi, il palco per una macabra danza di morte, ma non di persone: di umanità. Atti di razzismo, poiché questo è e niente di meno, giustificati come normali reazioni, nonostante fosse palese a chiunque l’esatto opposto: la virus non era entrato durante la fuga di qualche povero rifugiato, bensì da un italianissimo uomo medio che richiama “La banalità del male”. Egli sicuramente non fu maligno nel diffondere il virus, sarebbe una fallacia logica pensarlo, ma incurante, robotico, vuoto nell’essere un untore involontario, ovvero un insieme di caratteristiche che lo rendono la cosa più terrificante al mondo. Sarebbe impossibile fare un paragone con lo scenario della Arendt, poiché ovviamente i contesti e gli esiti furono diversi, ma l’ondata di xenofobia che portò alle spiagge della percezioni tutti quei mostri dimostrò come bisognasse fare fronte agli sguardi di sottecchi della gente, della paura del contatto, della cattiveria che andava inasprendo i cuori. Hannah Arendt scrisse: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai "radicale", ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso "sfida", come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità". Solo il bene è profondo e può essere radicale”
Si strappa via così tanto del proprio essere per guarire in fretta dalle ferite, che si finisce in bancarotta prima che si possa immaginare e s’ha meno da offrire ogni volta che viene trovata una persona nuova, una nuova relazione con il mondo. Ma forzarsi a non provare niente per non provare qualcosa, quello è uno spreco, forse il peggiore di tutti: la tragedia umana non è morire, ma sprecare la propria esistenza. Il cuore e il corpo vengono dati soltanto una volta ed in men che non si dica, il cuore può essere consumato da quei sentimenti d’irrazionale e maligna paura, e, per quanto concerne il corpo, a un certo punto nessuno più lo guarda, né ancora meno ci si avvicina, poiché come cantava De Andrè: “aveva il tuo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore”. Erano giorni di tristezza, di dolore, di paura. Eppure non vanno uccisi quei sentimenti, non vanno trincerati dietro l’inumanità in ogni sua manifestazione, poiché al pari di ogni altra gioia provata. Questo è ciò che è avvenuto, sarebbe dovuto avvenire, avviene o avverrà una, forse nessuna o forse centomila volte nel cuore.

Commenti

Post più popolari