Umani non si nasce, lo si diventa.
La vita, da intendersi come esistenza, è una condizione temporanea con una soluzione definitiva imposta da forze che un tempo lontano ci scagliarono sulla Terra, impossibili da cogliere dalle solo capacità umane. Chiedersi se sia possibile esistere o meno è futile, poiché l’esistenza, ovvero la condizione che ci permette la possibilità stessa della domanda, va costituendosi come un’imposizione di quel ciclone entropico che è il mondo fuori di noi. Non abbiamo la possibilità di scegliere chi essere al momento della nascita in nessun campo: noi siamo chi casualmente siamo resi. Questo ciclo di eventi che vanno oltre l’umana capacità di comprensione sono terrificanti, poiché un flusso di possibilità infinite che vanno aprendo una quantità di spiragli per mondi impossibili: “L’angoscia è la vertigine della libertà” scriveva Kierkegaard. Ma l’uomo, per tentare di non perdere se stesso in quella galleria di follie, va costruendosi il proprio strumento principe, il proprio faro in un oceano in burrasca: il linguaggio.
Per tentare di definire ciò che ci circonda, l’uomo ha iniziato formandosi vari linguaggi, ognuno dei quali per tentare di dare ordine a ciò che andava palesandosi davanti ai suoi occhi. Le categorie, dunque, nascono come tentativo d’incasellare la realtà in degli schemi il più possibili comprensibili “hic et nunc”, ovvero da coloro che vivono “qui ed ora”, per distinguere due enti differenti. Solamente suddividendo la realtà è possibile una vera e propria inclusione successiva mediata dal dialogo, poiché l’alternativa integrante andrebbe rendendo tutti un semplice insieme indistinto, incapace di relazionarsi e conseguentemente di vivere, essendo la vita relazione tra individui. La Bibbia stesse inizia con Dio che distingue le proprie creazioni: la luce ed il buio, la terra ed il cielo, l’essere umano e gli animali. L’uomo stesse viene scisso in due entità differenti: l’uomo e la donna. Qui, però, giunge il momento cruciale, poiché la divinità va distinguendo i due sessi, ma cosa significa essere uomini o essere donne?
Biologicamente la donna è la riproposizione di un secondo gamete X, conseguentemente con un’impostazione fisico-chimica differente. Ciò che viene tralasciato, però, è cosa voglia dire essere donna, non apparire donna. Spesso viene dimenticata la differenza fondamentale tra la realtà empirica e la realtà effettuale, e poiché stiamo andando discutendo di un ente estremamente più complesso di un semplice oggetto inanimanto che occupa un dato spazio in un dato momento nel tempo, sarebbe folle pensare di poter ridurrlo ad una semplice questione biologica. Pensare di poter distinguere due individui unicamente per la loro componente genetica è una prospettiva limitata che non va tenendo in conto la complessità di ciò che va propriamente a definire la realtà, ovvero la nostra umana capacità di ricevere ed attribuire valori. Pensare che linguaggio vada definendoci univocamente quando è l’esatto contrario, poiché esso strumento dell’espressione umana e non viceversa, comporta un errore tremendo e spaventoso. La disforia di genere, volendo fare un esempio, è una condizone mentale della persona in cui esso non riconosce la propria individualità nel corpo in cui è, frequentemente presente nei casi di transessualità, ponendo alla luce della discussione la domanda iniziale: noi siamo chi nasciamo o chi riteniamo d’essere? La nascita, come già affrontato, non può essere la definizione ultima dell’individuo, ma rimane aperta la questione del diventare ciò che si ritiene e si vorrebbe essere. Così come per la mente, dove andiamo distinguendo Io, Super Io ed Es con l’intento di studiarne le parti ma consci della loro originale commistione, così bisognerebbe affrontare la questione dell’indentità come lo studio di un essere che va affermandosi autonomamente, ergo rendendosi liberamente chi è. Sono le scelte effettuate a definire l’uomo nella sua singolarità, molto più delle sue possibilità. Ecco che creare dei criteri per distinguere ciò che è maschile e ciò che è femminile perde la propria ragion d’essere. In virtù di quale concetto aprioristico sarebbe possibile dire che una data scelta comporti la propria iscrizione all’essere donna o meno? Non è possibile alcun tipo di strumento sintetico a priori, bensì l’unica alternativa sarebbe prendere a modello strumenti culturali che, però, farebbero cadere l’istanza in una petizione di principio, poiché utilizzando ciò che si vorrebbe dimostrare come tesi. L’unica soluzione è accettare la libertà individuale, ovvero la possibilità di divenire ciò che si desidera.
La donna, dunque, non nasce tale, ma lo diventa, come scritto da Simone de Beauvoir in “Il Secondo Sesso” del 1949. La domanda che sorge, dunque, è come diventare ciò che si vorrebbe? Qualsiasi criterio a priori è inutilizzabile, ergo l’unica possibilità è quella di divenire seguendo ciò che si percepisce d’essere, ovvero affermando se stessi, richiamando la nozione nietzschiana del “Divenire se stessi”. Solamente nella sua affermazione libera ed individuale, differente rispetto alle altre ed al contempo simile, è possibile la realizzazione dell’ideale perseguito. Non esistono, dunque, false donne o vere donne, bensì unicamente infinite declinazioni di un’idea originale prodotta dall’uomo. La donna, attraverso l’accettazione e l’evoluzione di sé, va emancipandosi dall’essere genericamente “donna”, divenendo più della categoria che andrebbe definendola. In questo processo, dunque, l’identificazione di sé non è più un processo composto da un “Aut-Aut”, bensì da un “Et-Et” in cui è possibile la vita di più elementi di quelli che normalmente dovrebbero essere presenti nella loro categoria di riferimento. Il gruppo identitario non va definendo l’individuo all’interno, anzi è la morte della sua singolarità e del suo essere autonomo e libero: l’unica esistenza è quella libera in cui il gruppo nasce in tentativo di trovare un comun denominatore della realtà, non in cui il gruppo cerca di far cadere dal cielo ciò che si dovrebbe essere. Le uniche aspettative che la donna, più in generale ancora l’essere umano, ha il dovere di rispettare sono quelle di se stessa su se stessa, poiché qualsiasi altra forma la renderebbe semplicemente una chimera di ciò che si ritiene dovrebbe essere. Ecco, però, nascere spontaneamente domande su domande: è possibile divenire se stessi o è solo una pia illusione?
In un mondo in cui il concetto di “bene indotto” s’è oggettivato nella tasca di ogni singolo individuo, possiamo coscientemente dire d’essere ciò che saremmo voluti essere, oppure è impossibile sfuggire ad una trappola orchestrata per essere la più micidiale delle creazioni umane? La risposta è sì, ma nella misura in cui andiamo comprendendo di non essere “teste d’angelo senza corpo”. Pensarsi come isolati dalla cultura di riferimento sarebbe futile, poiché la cultura permea qualsiasi cosa intorno ed in noi, il punto sta nell’assumerla come uno strumento di comprensione e nulla più: l’abilità umana dovrebbe risiedere nella sua capacità di fallire e fallire ancora, ma mai due volte nella stessa maniera. Nessuno è solo una tabula rasa su cui incidere brutalmente, bensì un ente capace di ragionare, conseguentemente criticare, e questo fa si che davanti a quelli che sono dei “beni indotti” si possa agire per un cambiamento: è nell’agire, ovvero l’affermazione di sé come esercizio della propria naturale criticità, il cambiamento, poiché l’alternativa è un’ipocrita staticità asfittica. Volendo fare un esempio storico di successo delle capacità umane, si potrebbe citare l’evoluzione dei canoni di bellezza delle grandi agenzie di moda internazionali, sempre più spinte a modelli umanamente sani e non mortalmente ideali. Le condizioni necessarie per diventare ciò che si è, dunque, andrebbero costituendosi nella criticità rispetto al mondo e se stessi e nella volontà di voler affermare pienamente se stessi, in qualsiasi forma o manifestazione venga ritenuta funzionale verso l’essere ciò che si vorrebbe e si tenta d’essere. Ecco che la donna, l’uomo, l’umanità stessa non nasce tale, ma lo diventa.
Commenti
Posta un commento